L'eredità avvelenata: come l'ideologia dell'invidia ha paralizzato l'Italia

Pubblicato il 16 dicembre 2025 alle ore 10:16

Un'analisi del seme antiricchi che da Tangentopoli al grillismo ha soffocato la meritocrazia italiana

Esiste un filo rosso che attraversa gli ultimi trent'anni della storia italiana, un veleno ideologico che ha progressivamente corroso il tessuto produttivo e sociale del Paese. È il seme dell'invidia mascherata da giustizia sociale, quella visione distorta che vede nel ricco non un esempio di successo da emulare, ma un nemico da abbattere.

 

Tangentopoli: la giustizia o la ghigliottina ideologica?

 

Quando nel 1992 l'inchiesta Mani Pulite squarciò il velo sulla corruzione della Prima Repubblica, l'Italia applaudì. E aveva ragione di farlo: il sistema era marcio, i finanziamenti illeciti una pratica diffusa. Ma quello che iniziò come sacrosanta opera di pulizia degenerò rapidamente in qualcosa di diverso.

 

Antonio Di Pietro e il pool di Milano non si limitarono a perseguire i corrotti: criminalizzarono l'intera classe politica e imprenditoriale. Bettino Craxi, Gianni Agnelli, Silvio Berlusconi, Raul Gardini – la lista delle "prede" divenne un catalogo dell'eccellenza italiana, che fosse macchiata o meno da reati concreti. L'uso sistematico della custodia cautelare, le perquisizioni mediatiche, gli avvisi di garanzia trasformati in condanne pubbliche: tutto assunse i contorni di una moderna caccia alle streghe.

 

Come scrisse Indro Montanelli sul Corriere della Sera già nel 1993, criticando gli eccessi del pool: "Questa non è più giustizia, è giustizialismo". 

Non aveva torto. Secondo i dati della stessa magistratura, su 5.000 inquisiti di Tangentopoli, solo 1.200 furono effettivamente condannati in via definitiva, un tasso di condanna del 24%. 

 

Gli altri? Vite distrutte, aziende fallite, suicidi (Gardini, Moroni, Cagliari), per reati mai provati o prescritti.

L'ideologia dell'invidia: dal comunismo al grillismo

 

Ma perché questa furia giustizialista trovò terreno così fertile? La risposta sta in quel gene culturale che il comunismo italiano ha piantato profondamente nella società: l'idea che la ricchezza sia intrinsecamente illegittima, che il successo personale sia sempre frutto di sopruso.

 

Non è un caso che molti magistrati di Mani Pulite provenissero da ambienti culturalmente vicini alla sinistra radicale. Non si trattava necessariamente di tessera di partito, ma di quella forma mentis che vede nel privato il nemico, nell'imprenditore il predatore, nel profitto il peccato originale del capitalismo.

 

Questa ideologia ha trovato la sua massima espressione nelle parole di alcuni intellettuali della sinistra contemporanea. Quando Thomas Piketty, il guru dell'egualitarismo europeo, propone tassazioni confiscatorie del 90% sulle grandi eredità, o quando in Italia si dibatte seriamente di "redistribuzione delle eredità", come fatto da alcuni esponenti del PD e di Sinistra Italiana, non stiamo parlando di giustizia fiscale. Stiamo parlando di espropriazione ideologica! 

 

La premessa è sempre la stessa, fallace: la ricchezza è un gioco a somma zero. Se tu hai, io non ho. Se tu erediti, rubi agli altri. È l'invidia travestita da teoria economica.

 

La storia del Novecento è un cimitero di esperimenti redistributivi falliti. L'Unione Sovietica, con la sua economia pianificata, collassò sotto il peso della propria inefficienza. La Cina si salvò solo abbracciando il capitalismo (pur mantenendo l'autoritarismo politico). Cuba, Venezuela, Corea del Nord: ovunque l'ideologia della redistribuzione forzata è stata applicata in modo coerente, ha prodotto miseria, non prosperità.

 

La ragione è semplice e antropologicamente innegabile: "l'uomo risponde agli incentivi". 

 Se togli la prospettiva del guadagno, del miglioramento personale, della trasmissione ai figli del frutto del proprio lavoro, azzeri la motivazione. Non è cinismo, è natura umana.

 

Guardiamo ai fatti quotidiani che tutti possiamo verificare: funzionano meglio le aziende pubbliche o quelle private? Poste Italiane o i corrieri privati? L'ATAC di Roma o le linee ferroviarie gestite da Italo? L'elenco è interminabile e la risposta sempre la stessa. Quando manca il "mordente del profitto", come lo definiva Luigi Einaudi, anche l'organizzazione più ben intenzionata ristagna nell'inefficienza.

 Dal giustizialismo al grillismo: l'apoteosi dell'invidia

 

Il terreno preparato da Tangentopoli e fertilizzato dall'ideologia redistributiva ha fatto germogliare il fenomeno più distruttivo della Terza Repubblica: il Movimento 5 Stelle.

 

"Uno vale uno" non era solo uno slogan populista. Era l'apoteosi del livellamento verso il basso, la negazione stessa della competenza, del merito, dell'eccellenza. Beppe Grillo dal suo blog tuonava contro la "casta", alimentando sistematicamente l'odio verso chi faceva politica, chi faceva impresa, chi aveva successo.

 

Il risultato? Un'intera generazione convinta che:

- La politica sia per definizione un "poltronificio"

- Il reddito sia un diritto, non il frutto del lavoro

- Lo Stato debba garantire sussistenza permanente (Reddito di Cittadinanza)

- Gli imprenditori siano evasori fino a prova contraria

- Il merito sia un privilegio da abbattere, non un valore da premiare

 

Il Movimento 5 Stelle ha governato il Paese dal 2018 al 2022, spesso in coalizione proprio con quel PD che condivideva lo stesso substrato ideologico. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: il Reddito di Cittadinanza, quella mancetta travestita da politica del lavoro, ha disincentivato l'occupazione regolare creando una classe di assistiti permanenti. Secondo i dati INPS, nel 2022 solo il 12% dei percettori di RdC ha poi trovato un lavoro stabile. Il resto? Ha preferito vivere di sussidio.

 L'immigrazione incontrollata: l'altra faccia dell'ideologia

 

La stessa ideologia che criminalizza il merito interno promuove l'accoglienza indiscriminata dall'esterno. Non è contraddizione, è coerenza: se la ricchezza non si crea ma si redistribuisce, allora possiamo redistribuirla anche a chi arriva. Se il successo è illegittimo, allora tutti hanno uguale diritto al welfare, indipendentemente dal contributo dato alla società.

 

È la logica che ha portato la sinistra europea a sostenere politiche migratorie suicide, trasformando il Mediterraneo in una rotta gestita da trafficanti, e le città italiane in laboratori di tensioni sociali irrisolte. Non per cattiveria, ma per quella stessa cecità ideologica che non riesce a vedere la differenza tra immigrazione regolata e invasione incontrollata, tra solidarietà sostenibile e autolesionismo assistenziale.

Bisogna tornare al merito e rifiutare l'invidia! 

 

L'Italia ha un disperato bisogno di liberarsi da questo veleno ideologico. Di riscoprire che la ricchezza non è un peccato ma un obiettivo legittimo. Che l'imprenditore di successo non è un nemico sociale ma un motore di prosperità collettiva. Che ereditare il frutto del lavoro dei propri genitori non è un privilegio da redistribuire, ma il più naturale degli incentivi a costruire, risparmiare, investire nel futuro.

 

Il comunismo, nelle sue infinite varianti, dal collettivismo sovietico all'egualitarismo redistributivo contemporaneo, non ha mai portato benefici duraturi all'essere umano. Ha solo prodotto povertà condivisa, mentre demonizzava chi osava emergere.

 

È tempo di scegliere: vogliamo una società che premia il merito o che coccola l'invidia? Una nazione che crea ricchezza o che si limita a redistribuire miseria? 

 

La risposta dovrebbe essere ovvia. Ma in un Paese ancora intossicato dall'ideologia dell'invidia, evidentemente non lo è.

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